I menù delle feste natalizie

 

Le feste di Natale sono l’occasione ideale per spezzare la monotonia del pasto veloce e tornare ad assaporare le straordinarie ricette di una volta La moda del panino ha contagiato anche gli italiani.

L’abitudine di fare un pasto veloce con panini in tutte le salse è diventata un fenomeno dilagante, ormai molto difficile da arginare.

Uno dei pochi rimedi a disposizione è la fuga dalla routine quotidiana e la ricerca di occasioni che consentono di fermarsi qualche ora a tavola per gustare con calma le prelibatezze della tradizione gastronomica.

Le feste natalizie sono una tipica evasione dalla quotidianità dai suoi diabolici pasti frugali consumati il più delle volte mangiando le cose più assurde sempre con l’occhio puntato sull’orologio per paura di ritardare.

La concentrazione di numerose in poco più di dieci giorni fa sì che si possa rallentare per riappropriarsi di cose che sembrano non appartenerci più.

Le Marche sono la regione ideale per andare alla scoperta di tradizioni e sapori perduti, anche se per la verità questa regione non è stata del tutto contaminata dai ritmi frenetici che sono proprie delle realtà metropolitane.

Contrariamente a quanto accade in altre regioni dove a prevalere sono poche importanti piatti se non addirittura uno solo, le Marche anche sotto il profilo gastronomico sono una terra al plurale dove ogni territorio ha la sua specialità, la sua tipicità, quel prodotto particolare pronto a colpire le papille gustative e ad estasiare il vostro palato.

I pranzi legati alle varie ricorrenze si trasformano in veri e propri riti ai quali è quasi impossibile sottrarsi, a cominciare da quello della Vigilia dove il digiuno legato all’insegnamento e alla fede cattolica viene praticamente osservato esclusivamente evitando cibi a base di carne.

Dunque nel cenone che precede di poche ore la nascita del Redentore sono protagonisti assoluti il pesce, legumi e verdure in genere.

Nel più famoso libro di cucina marchigiana del passato “Il cuoco maceratese” Antonio Nebbia, pubblicato nel 1781, dedica espressamente due ricette alla vigilia di Natale: piatto di cavoli in turbante di Vigilia e piatto di selari di Vigilia con salsa di tarantello.

Soprattutto il selaro (sedano) era usato in gran quantità per via delle sue proprietà afrodisiache. Il tarantello è invece un salume molto particolare realizzato con la pancia del tonno. In entrambi i casi cavolfiori e sedani vengono arricchiti in padella da una grande varietà di erbe e spezie, ma soprattutto tutte e due i piatti contengono l’altro elemento peculiare delle preparazioni della vigilia, il pesce che in questo caso dà sapore alle ricette sotto forma di brodo ristretto, quello che oggi chiamiano fumetto.

Anche se il libro di Nebbia conteneva già molti riferimenti alla cucina internazionale è logico supporre che queste due ricette natalizie fossero largamente in uso nelle Marche e in particolare nel maceratese.

Un piatto molto diffuso è la minestra di ceci presentata con un semplice condimento di olio e aglio.

Tra le verdure è doveroso citare i cardi, nel maceratese ingrediente principale di una particolare versione di parmigiana.

Nell’ascolano una sfiziosità che apriva e apre tuttora il grande appuntamento conviviale della Vigilia è il cavolfiore (o anche alici o uva sultanina) fritto in abbondante pastella che prende il nome di frittelletto.

Tra i primi serviti nel cenone della Vigilia spicca senz’altro gli spaghetti al sugo di magro, diffusissimo nell’ascolano.Il cosiddetto sugo di magro è un condimento molto leggero a base di olive verdi, tonno, alici, peperoncino e pomodoro maturo.

Il pesce viene praticamente utilizzato in numerosi modi, dall’antipasto al primo ai secondi al tradizionale brodetto, uno dei piatti principe della tradizione marinara di questa regione che conta tante versioni da quella fanese a quella anconetana da quella di Recanati, caratterizzata dall’uso dello zafferano a quella sambenedettese, le cui peculiarità sono l’uso dei peperoni e dei pomodori molto acerbi.

Altra pietanza tipica del cenone è l’anguilla arrostita sulla brace con abbondante quantità di foglie di alloro.

Ma il filo conduttore della Vigilia sotto il profilo gastronomico è senz’altro lo stoccafisso, anch’esso preparato in tutte le salse possibili e immaginabili. Nel volume “Le Marche a tavola. La tradizione gastronomica regionale” Renato Novelli cita la ricetta dello stoccafisso all’anconetana, la versione più conosciuta e famosa di preparare questo tipo di pesce, che Cesare Tirabasso, cuoco in Macerata, ma originario di Montappone, riporta nel suo mastodontico “Il cuoco classico” dato alle stampe nel 1930. Gli ingredienti sono stoccafisso, pomodori maturi, patate, prezzemolo e acciughe che conferiscono al piatto un sapore unico. Tra i tanti modi di cuocere lo stoccafisso è la ricetta che Antonio Attorre, giornalista esperto di gastronomia e vice presidente nazionale dello Slow Food, cita nel suo “Sapori e luoghi della memoria”. Stiamo parlando dello Stoccafisso di S. Antonio che veniva realizzato in modo particolare qualche settimana dopo Natale, esattamente il 17 gennaio in occasione della ricorrenza di Sant’Antonio, ma molto diffuso anche nel cenone della Vigilia. Lo stoccafisso viene cotto in una salsa di pomodori maturi o pelati, cipolla, aglio, peperoncino, olive nere, alici, vino bianco secco, aceto e peperoni sottaceto.

Il cenone della Vigilia inaugura la grande abbuffata delle feste natalizie, tuttavia abbiamo poche ore di tempo per smaltire dal momento che in rapida successione abbiamo il grande pranzo natalizio, caratterizzato da molte contaminazioni della tradizione gastronomica di regioni confinanti.

Un piatto classico è costituito dal brodo di cappone o di gallina nel quale vengono cotti i famosi cappelletti, quasi sempre realizzati in casa riempiendo sottili sfoglie di pasta tirate a mano con un ripieno di carni varie (maiale, manzo, pollo e prosciutto) condite con abbondante parmigiano.

Nel pesarese i cappelletti vengono spesso sostituito con i passatelli, pasta tipica di quel territorio. Ma il filo rosso che unisce gran parte di questa regione sono i mitici vincisgrassi, ricchissimo piatto della tradizione di origini maceratesi, ma sostanzialmente diffusa in gran parte delle Marche sia pure in varie versioni e con nomi diversi. Nell’ascolano ad esempio viene definito timballo. Si tratta di un piatto ricorrenti in tutte le festività e in tutte le grandi occasioni. Ma è difficile che dalle nostri parti esista un Natale senza vincisgrassi. La ricetta che Tirabasso riporta nel suo volume è molto ricca anche se oggi probabilmente poco usata. Si dispone su un testo da forno la pasta sfoglia dopo una breve cottura in acqua salata e si condisce con una salsa che Tirabasso definisce pasticciata fatta con pomodori maturi, fegatini, pollo, lombo e prosciutto. Questa ricetta è arricchita addirittura da lamelle di tartufo che vengono adagiate sulla salsa. Ogni strato viene ovviamente ricoperto di parmigiano e una volta ulltimata la preparazione prima di completare la cottura in forno vengono aggiunti fiocchi di burro e uno spesso strato di salsa besciamella. L’osservazione finale del grande cuoco è dedicata al materiale del contenitore preferibilmente alluminio o ferro smaltato.

I piatti che nel pranzo di Natale seguono i primi sono diversi e tutti a base di carni varie soprattutto arrostite. Innanzitutto vengono serviti il cappone o la gallina, ovvero il lesso, utilizzati per fare il brodo.

Nel pesarese si fa seguire la pasticciata, un arrosto di carne di manzo che viene steccato, lardellato e profumato con varie spezie. A fine cottura si ottiene una sorta di brasato dal momento che la carne viene fatta rosolare nei grassi e nel vino rosso.

Nel piceno molto diffuso è il cosiddetto fritto all’ascolana, un misto di costolette di agnello, olive farcite (non potevano mancare), crema e verdure.

Un’altra antica ricetta della tradizione marchigiana è il tacchino, o meglio la tacchinella, che ha carne più tenera, farcita con crema di castagne.

Siamo così giunti al capitolo dolci che meriterebbero un trattato a parte vista la grande varietà che possiamo contarne su tutto il territorio regionale. Iniziamo con una tradizione dell’urbinate menzionata in pubblicazioni degli anni cinquanta che resiste tuttora in qualche piccolo centro. L’innamorata ricambia il dono fattole dal proprio fidanzato per Natale con una ciaramilla, specie di ciambella cotta al forno che richiama in maniera diretta la ciaramicola, dolce tradizionale molto in uso nel settecento e nell’ottocento.

Un dolce casareccio tipicamente marchigiano molto diffuso nella nostra regione con nomi diversi è il frustingo ascolano che nel pesarese diventa bostrengo. Dolce di origini molto povere realizzato con poco zucchero (quando il suo prezzo era piuttosto salato) e con una gran quantità di frutta secca fichi secchi, noci, mandorle cioccolato, rhum, caffè, cacao e altri ingredienti. Oggi la disponibilità di alcuni ingredienti non è più la stessa e il frustingo è diventato uno dei dolci più costosi, anche se la sua procedura talmente elaborata consiglierebbe di rivolgersi a qualche persona di fiducia che lo realizza seguendo rigidamente la tradizione.

Nel maceratese la tradizione dei dolci natalizi è legata ai cavallucci e i piconi (realizzati con castagne o ricotta) e la pizza di Natale un dolce poco dolce proprio perchè frutto della tradizione povera.

Chiudiamo con un torrone molto particolare, una vera rarità e squisitezza: il torrone di fichi di Monsampolo, panetto fatto di fichi secchi, canditi, mandorle e cannella.

 

Stefano Greco

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